Voce del verbo sfangarla, capitolo 9: il richiamo del campo
Voce del verbo sfangarla Luglio 29, 2016 delinquentidelpallone
Leggi il Capitolo 1: Senza infamia e senza lode
Leggi il Capitolo 2: Dieci finali
Leggi il Capitolo 3: Ogni volta come la prima
Leggi il Capitolo 4: Casa dolce casa
Leggi il Capitolo 5: Il Dio dei Poveri Cristi
Leggi il Capitolo 6: Questione di Scelte
Leggi il Capitolo 7: La Rivoluzione
Leggi il Capitolo 8: La solitudine dei numeri uno
Voce del verbo sfangarla, racconto a puntate
Capitolo 9: Il richiamo del campo
Io così non ce la faccio. Sono abituato a dare sfogo a tutto quello che ho dentro in uno e un solo modo, da sempre, da quando ho imparato a camminare e a correre. Io, quello che ho dentro, lo butto fuori solo correndo dietro a un pallone, o più spesso correndo dietro a un tizio che il pallone ce l’ha tra i piedi, prendendo quel pallone e tirandolo via il più lontano possibile da me.
E’ per questo che quando quel giovedì ho infilato il mio piede destro in una delle cinquecento buche che infestano il nostro infimo campo sportivo, e quando da quel campo la mia caviglia è uscita gonfia come una patata, ho capito che la prossima partita la avrei dovuta guardare dalla tribuna. Di nuovo.
Certo, avete ragione, va avanti tutto, va avanti tutto il resto e va avanti anche abbastanza veloce, purtroppo. Però io senza quei 90 minuti alla settimana sono niente. Se mi togliete quei 90 minuti, quell’emozione, quel brivido, io sono uno straccio da buttare, sono uno tra tanti, sono un ingranaggio anonimo del meccanismo del mondo che gira senza uno scopo, senza sapere perché. Il dottore, fortunatamente, ha detto che è solo una distorsione. Fasciatura rigida, un po’ di riposo e potrò tornare a prendere il mio posto al centro della difesa a fianco al mio socio Mirko.
E prima di tornare ad essere qualcuno, prima di tornare al mio posto al centro della difesa, devo finire di espiare le mie colpe. Un’altra giornata lontano dai campi, lascerò guarire questa caviglia e poi potrò tornare in campo. Si, mancano cinque partite alla fine del campionato e si, grazie alle cinque vittorie precedenti, siamo ancora in corsa per la promozione in Prima Categoria. Non sappiamo nemmeno noi come, ma con altre cinque vittorie potremmo farcela. E ora, per qualche strano motivo, dopo tutto quello che è successo, ci crediamo davvero.
Solo che c’è un problema. Il mister, stavolta, non sa davvero chi mettere di fianco a Mirko. Perché anche Spartaco, colui che in genere mi sostituisce, o sostituisce Mirko, o sostituisce entrambi, questa domenica è assente. Comunione del suo quinto figlio. Poi dici che uno non deve prendersela con la Chiesa, i Santi, i Calendari, gli Astri Celesti. Per la partita contro il Lisciano dobbiamo trovare una soluzione, perché si, fino al venerdì sera nessuno di quelli che frequentano abitualmente la Polisportiva San Michele è in condizioni di piazzarsi al centro della difesa per tirare qualche randellata ben assestata e difendere la porta in cui staziona il buon Antonio.
Poi, come spesso, molto spesso in questa putrida e imprevedibile esistenza, la risposta arriva al bar dopo cinque Campari col bianco. Anzi, arriva da dietro il bancone del bar, per la precisione. Felice, 46 anni, un passato da capitano della Polisportiva San Michele, quindici anni orsono, prima che il ginocchio gli saltasse, costringendolo a una faticosa riabilitazione e recupero, culminata nell’acquisto di uno dei tanti bar del paese. Scelta saggia, vista la quantità di denaro che giornalmente lasciamo sul suo bancone, a dire la verità. Dopo diverse insistenze, approfittando del fatto che per qualche strano motivo si possono ancora tesserare giocatori svincolati a cinque giornate dalla fine del campionato, convinciamo Felice a regalare ancora una volta 90 minuti della sua vita per la maglia della Polisportiva San Michele.
Così, la domenica, accanto a Mirko, per affrontare il Lisciano, 5 punti in meno di noi e tanta voglia di scassarci l’anima fino alla fine, si presenta lui, felice di nome e di fatto, con gli occhi lucidi di emozione e le gambe che tremano. Ci sono duecento persone sugli spalti, curiosi e parenti inclusi. Soprattutto parenti. Ma l’emozione è la stessa di una finale di Champions League, differenze ce ne sono poche. E’ questo il bello di questo sport, il fatto che, una volta che l’arbitro ha fischiato l’inizio della partita, che sia il Comunale Nazareno Strampelli o il Santiago Bernabeu, è sempre la stessa cosa.
Il Lisciano attacca, all’arma bianca, costringendo l’arrugginito Felice agli straordinari. Mirko lo guida come sempre, lui, nonostante il fiato non ci sia praticamente più, resiste strenuamente. La partita scorre via come tante delle nostre, brutta, sporca, inguardabile. Sembrerà strano, non lo abbiamo mai fatto, non lo abbiamo mai detto. Ma a un certo punto succede anche a una squadra come la nostra. Ci accorgiamo che il pareggio ci sta stretto. Mai lo avrei pensato, ma negli ultimi 15 minuti ci lanciamo all’attacco, animati da uno spirito nuovo. Quando mancano 7 minuti alla fine, Willy si guadagna un calcio d’angolo facendo carambolare il pallone addosso a un difensore. Uno dei suoi soliti cross sbagliati che per fortuna ora si rivelano utili a qualcosa.
Felice è già pronto a lasciare il posto nell’area avversaria a Mirko, visto che siamo sì cambiati, ma comunque non siamo ancora pronti per far salire entrambi i nostri difensori centrali nell’area avversaria per un corner. Mirko guarda Felice, gli appoggia una mano sulla spalla. E gli dice, fiero: “Vai tu, te la meriti.” L’area del Lisciano è una tonnara senza paragoni, nessuno saprebbe dire con precisione quello che sta per succedere. Gioele va sulla bandierina, prende la rincorsa e mette il pallone in mezzo. Felice raccoglie tutte le forze che ha, si lancia verso la porta avversaria, prova a staccare per saltare e colpire la palla di testa.
E’ in quel momento che sente qualcosa fare crac. Un rumore tipo una birra che si stappa, un tappo che salta. Lo sa benissimo quello che sta succedendo, non riesce più a fare quel salto che aveva in mente di fare. Ma ormai ha preso lo slancio, si trascina e, senza sollevare mezzo piede da terra, arriva dritto addosso al portiere avversario, travolgendolo. Il pallone di Gioele è morbido ma velenoso. La palla a un certo punto sterza, gira, accarezza e bacia il secondo palo, che, con il portiere stramazzato al suolo, travolto da Felice, è incautamente abbandonato. Si sente un altro rumore, simile a quello precedente. Un rumore tipo una birra che si stappa, un tappo che salta. Ma è solo un pallone che bacia il palo e si infila in rete.
A questo punto ci aspetteremmo tutti che l’arbitro fischi la carica sul portiere, e invece no. Tra le vibranti proteste (e vibranti ceffoni) degli avversari, il direttore di gara convalida la rete. Il gol olimpico di Gioele, favorito dal placcaggio di Felice. Che però ora non riesce a rialzarsi. Il ginocchio ha fatto crac, di nuovo. Sacrificato per un gol che vale un sogno, un sogno al quale crede anche lui, adesso.
Mentre la barella lascia il campo, Felice sente tre fischi, e le urla di gioia di altri dieci ragazzi che si abbracciano. Dieci ragazzi che ora sono a quattro vittorie dalla più incredibile promozione di tutti i tempi. E chissenefotte di quel ginocchio.
Valerio Nicastro
twitter: @valerionicastro
[continua…]