Quando la vita ti mette spalle al muro, piazzando davanti al tuo cammino ostacoli all’apparenza insormontabili, puoi reagire in due soli modi: lasciarti andare...

Quando la vita ti mette spalle al muro, piazzando davanti al tuo cammino ostacoli all’apparenza insormontabili, puoi reagire in due soli modi: lasciarti andare o combattere. Se hai solo quattordici anni e ti viene a mancare il punto di riferimento più importante della tua vita, il pericolo di incappare nella prima ipotesi è davvero molto alto.

Per Tomas è una sera all’apparenza come tante in viaggio verso San Cristobal, sulle Ande Venezuelane, per far ritorno a casa dopo una partita di pallone. Due parole con l’amico e compagno di squadra Leonardo Colmenares per ingannare l’attesa del viaggio, poi altre parole, scandite piano e con voce tremante dal conducente dell’auto, che il giovanissimo Rincòn non avrebbe mai voluto sentire. “E’ venuta a mancare tua madre, in un incidente stradale”.

Gli sembra che nulla possa più aver senso, troppo grande un dolore del genere, troppo pesante da portare sulle spalle per un ragazzo poco più che bambino.

Da giovanissimo mi sono dovuto fare carico della famiglia: sono cresciuto sulla strada maturando in fretta. Già da allora gli amici e i compagni di squadra vedevano in me un leader.

La cosa strana e pazzesca al tempo stesso in queste storie, di cui il Sudamerica in particolare non è avaro, è che esce sempre un personaggio, qualche volta collegato alla famiglia ma più spesso estraneo a qualsivoglia vincolo di sangue, pronto ad offrire una possibilità di riscatto.

In questo caso si tratta di Edmundo Kabchi, conosciuto in un torneo under 15 e presidente del Deportivo Tachira, squadra del cuore di Tomàs di cui di lì a qualche anno avrebbe vestito i panni. “Non puoi stare qua adesso Tomàs, tutto ti ricorda tua madre: la casa, i luoghi che frequenti, tutto quanto.” Lo manda in Argentina, a soli 15 anni, destinazione Rosario. Città dove si mangia e respira calcio ventiquattro ore al giorno, sette giorni su sette e solo perché il Creatore non ne ha fatto uno in più. Finisce nella metà rossoblu di Rosario, al Newell’s Old Boys. Quasi un anno, completamente da solo e in un altro paese, in un’età in cui solitamente si chiede il permesso ai genitori anche solo per varcare la soglia di casa.

Per questo Rincon è quasi obbligato a combattere, per non lasciarsi travolgere dagli eventi, per sopravvivere e perché, in fondo, sembra nato per farlo.

Torna in Venezuela, forte dell’anno vissuto nella Pampa Argentina, cresciuto come uomo e come calciatore. Esordisce da professionista nello Zamora FC, per poi passare al già citato Deportivo Tachira di Edmundo Kobchi. Per Rincòn vestire la maglia della aurinegra, così denominata per via dei propri colori, è un orgoglio indescrivibile che però dura soltanto sei mesi.

E’ tempo d’Europa, di Germania in particolare: è’ il 2009 e Tomàs Rincon è pronto al grande salto. Ad accoglierlo il vento gelido che sferza dal porto di Amburgo, oscuro presagio che anche questa avventura non sarà per nulla semplice. Ne ha già vissute abbastanza Tomàs per non scoraggiarsi e, dopo un primo periodo di ambientamento, diventa il perno insostituibile del centrocampo tedesco. A proposito, se vi state chiedendo da dove derivi il suo soprannome “El General” la risposta è proprio da ricercarsi qui, in Germania. Contrariamente a ciò che avviene per molti suoi connazionali, a cui il soprannome viene affibbiato in patria, Rincon diventa “generale” ad Amburgo.

Per via dell’ordine e della disciplina che impone in mezzo al campo, per la capacità di far valere la propria legge con le maniere buone o, come più spesso accade, con le cattive. Non molla un centimetro e non da un pallone per perso, da buon generale è sempre lì a dirigere, nonchè l’ultimo ad abbandonare il terreno al termine della battaglia. L’azione emblematica del suo modo d’intendere il calcio? Un gol sventato che ha dell’incredibile in Amburgo-Schalke 04: un pallone che con qualsiasi altro giocatore avrebbe probabilmente varcato la soglia. Non con il generale Rincòn di guardia, signori.

Non è certamente uno di quei giocatori che catturano l’occhio ma l’importanza di averlo in campo, dalla propria parte della barricata, non è quantificabile.
Scala ben presto anche le gerarchie della Nazionale, fino a diventarne l’uomo più rappresentativo, ovvero colui che indossa la fascia di capitano al braccio. Nella Copa America del 2011, con la Vinotinto che si classifica al quarto posto, viene eletto miglior giocatore della competizione.

E’ bello essere un modello per i bambini. Loro vedono nel calcio un’opportunità per inseguire i loro sogni e provare a tramutarli in realtà. Ognuno di noi è il capitano della propria vita. Avere la fascia al braccio in nazionale è importante: viviamo un momento sociale difficile, i giovani vedono nella Vinotinto un momento di speranza e noi cerchiamo di regalare loro qualche momento di allegria.

Dopo 5 anni in Germania, 106 presenze totali e nessun gol all’attivo è tempo di cambiare aria. La trattativa con Preziosi si svolge in 48 ore, neanche il tempo di realizzare che già si trova in un’altra città portuale: Genova. Anche qui non ci mette molto a prendere in mano le redini del centrocampo rossoblu, con Gasperini che gli avanza leggermente la posizione e gli concede persino qualche sortita offensiva. Nella sua seconda stagione arriva anche il primo gol, dopo sei anni di astinenza assoluta, e non è una rete banale: interno sinistro a giro che si infila poco sotto l’incrocio dei pali, mica male per uno che di mestiere dovrebbe fare il mediano di rottura.

Al termine della stagione saranno 3 i suoi gol, ad impreziosire una serie di prestazioni che lo pongono all’attenzione di molti club, italiani e non. Lo vogliono Inter e Milan, ad esempio, ma Tomàs Rincon decide di rimanere a Genova.

Via Gasperini in panchina arriva Juric, uno che per temperamento, etica del lavoro e modo di stare in campo se la intende bene con il generale. Rincòn, nello schieramento fortemente offensivo voluto da Juric, è la pedina fondamentale per dare copertura alla squadra, l’equilibratore in grado di tenere sempre connessi tra loro i vari reparti. Non è un caso che, nonostante la filosofia offensiva della squadra, la difesa genoana sia una delle meno perforate dell’intero campionato. Merito dei difensori certamente, ma merito anche di un generale lì in mezzo al campo, che sa sempre dove e come muoversi.

Da San Cristobal a Genova la strada è stata lunga, piena di insidie e di prove da affrontare. Tutte superate a testa alta, con un pensiero speciale sempre rivolto a mamma Tibisay, il cui ricordo è diventato indelebile sul suo braccio destro e lo accompagna ogni qual volta si appresti a varcare la soglia per scendere in campo, pronto ad affrontare una nuova battaglia.

Paolo Vigo
Twitter: @Pagolo