Per appartenenza territoriale. Per appartenenza familiare. Per innamoramento fulmineo e immotivato. Per inspiegabili ragioni metafisiche. Ripercorrere le origini del tifo è impresa ardua e...

Per appartenenza territoriale. Per appartenenza familiare. Per innamoramento fulmineo e immotivato. Per inspiegabili ragioni metafisiche. Ripercorrere le origini del tifo è impresa ardua e spesso inutile. Ad un certo punto della nostra esistenza, ci ritroviamo a soffrire per le gesta di 11 uomini che indossano una maglia bianca, nera, colorata, a righe, a strisce, con improbabili disegni sul petto, oggi addirittura camaleontiche divise mimetiche.

Ad un certo punto della nostra esistenza, ci ritroviamo a soffrire per loro. Loro che sono a un metro da noi. Loro che sono a migliaia di chilometri da noi. Perchè nell’imprevedibilità del contagio, possiamo ritrovarci tifosi della squadra della nostra città, certo. Ma possiamo ammalarci e diventare tifosi del Southampton, dell’Athletic Bilbao, del Borussia Mönchengladbach. Non c’è spiegazione, non ci sono motivi razionali. Non sappiamo dire perchè. E’ bastato un attimo, da bambini. Vedere in televisione una divisa che ci piaceva, un simpatico campione che segnava una doppietta in una partita di Coppa Uefa, leggere un giornale che raccontava una storia interessante. E ci siamo presi una cotta per una squadra straniera. Può succedere.

Magari uno zio ci ha convinto che tifare Juventus fosse la cosa più bella del mondo. Eppure abitiamo a Roma, avremmo potuto scegliere tra il giallorosso e il biancoceleste, e invece abbiamo scelto la via più tortuosa e complicata. O magari non abbiamo mai veramente scelto. Tua madre ti fa vedere una vecchia foto da bambino. Indossi una maglietta rossonera con il numero 9, e fingi di essere Marco Van Basten. Curioso, qualche anno dopo ti saresti innamorato di un Fenomeno venuto dal Brasile. C’erano i suoi manifesti in tutta la città. Lui, inquadrato di spalle, il numero 9, un piede sollevato. La potenza è nulla senza controllo. E la tua foto con un’altra maglia numero 9, questa volta nerazzurra. Marco Van Basten, chi?

Può avvenire anche per folgorazione. Il calcio non ti piaceva nemmeno. Un amico ti chiede di accompagnarlo a vedere la partita. E ti ritrovi in un mondo magico, in un universo che batte ad un ritmo primordiale, tutto suo. E, di colpo, non puoi più farne a meno, non puoi più perderti una partita. Respirare da vicino il profumo dello stadio, le voci, i rumori, le imprecazioni. Diventeranno il tuo rito, il tuo modo di santificare la Domenica.

Non sappiamo come. Semplicemente, succede. Ci ritroviamo persi, da adulti in un mondo disegnato a misura di bambino. Un mondo in cui, al fischio dell’arbitro, dimentichiamo tutte le regole della civile convivenza. Un mondo in cui, da maschi adulti consenzienti, non ci vergogniamo di urlare al complotto per un rigore che non ci è stato concesso, non ci vergogniamo di sbraitare parole irripetibili all’indirizzo dell’uomo con il fischietto, di insultare l’allenatore che non fa i cambi, il terzino che non fa la diagonale. Non ci vergogniamo di fare e dire cose che, il lunedi mattina, sarebbero considerate delle pure e semplici idiozie. Non ci vergogniamo di piangere se le cose andranno male.

Siamo tifosi, che ci possiamo fare? 

Valerio Nicastro
twitter: @valerionicastro