Pietro Vierchowod, lo Zar
Storie di calcio Agosto 28, 2014 delinquentidelpallone
Siamo al termine della stagione 1999-2000, un nuovo secolo bussa alle porte. Viene scosso da una notizia che era nell’aria ma a cui nessuno credeva realmente. Pietro Vierchowod, lo Zar, si ritira dal calcio giocato. All’età di 41 anni decide che è arrivato il momento di appendere le scarpette al chiodo, infierendo un duro colpo ad un gioco, quello del calcio, in piena evoluzione.
Un calcio che non è che il lontano parente di quello che lo Zar aveva conosciuto ai suoi esordi, nei primi anni 70. Un calcio che sta virando sempre più verso l’apparenza dimenticandosi della sostanza, un calcio che rispecchia sempre meno i valori di cui lo Zar si è fatto paladino negli anni.
Il suo non è il classico ritiro, non appende le scarpe al chiodo un semplice giocatore. E’ un modo di vivere il pallone che se ne va con lui. E il tramonto di un ruolo, interpretato ai massimi livelli, destinato a riapparire raramente e a scaldarci il cuore, come il sole che d’improvviso spazza via le nubi estive.
Lo stopper, da quel momento in poi, troverà la sua reincarnazione nei campi di periferia a noi tanto cari, diventando una reliquia preziosissima nel mondo del professionismo. Ma andiamo con ordine, consci che tenere a freno i sentimenti sarà impresa assai ardua.
E’ il 1959 quando Pietro viene alla luce a Calcinate, paesino in provincia di Bergamo. Il padre ucraino ,Ivan Lukjanovič Verchovod, è un soldato dell’Armata Rossa agli ordini di Lev Trockij. Finita la guerra dovrebbe tornare in patria, c’è un lavoro in fonderia ad attenderlo. Ma Ivan decide di non tornare a casa, si sposa in Italia e svolge lavori di manovalanza per portare avanti la famiglia.
Che Pietro venga su con un carattere di ferro, temprato e forgiato a dovere, non è nemmeno in discussione. Gli piace il calcio, si diletta a dare qualche pedata ad un pallone sin da piccolo, ma la sua occupazione principale è l’aiutante idraulico. E’ atletico, intelligente e dotato di una velocità fuori dal comune.
E’ anche troppo forte perché il suo amore per il pallone rimanga un semplice passatempo. Esordisce nello Spirano, la classica squadretta di paese, ma ben presto approda alla Romanese, prima nelle giovanili in seguito in prima squadra. Non gioca molto in serie D, ma ciò non toglie che venga notato dai grandi club. Il primo a farsi avanti è il Milan, che gli offre un provino.
La svolta della carriera, si potrebbe pensare, e invece no, “Nel tuo ruolo siamo coperti, grazie e arrivederci”. Ed in effetti Pietro i colori rossoneri li rivedrà, venti anni più tardi. Già perché ora a Milano sponda rossonera c’è un certo Baresi, di nome Franco.
A fiondarsi sul difensore ci pensa il Como, allora militante in serie c1, che ora vorrebbero venisse chiamata Lega Pro. Perdonateci, ma proprio non ci riusciamo. Ottiene subito una doppia promozione, arrivando nella massima serie nella stagione 1980-’81. Su di lui, che nel frattempo migliora di partita in partita, mettono gli occhi un po’ tutti i grandi club del calcio italiano, ma è l’ambizioso presidente blucerchiato Mantovani a strapparlo alla concorrenza.
C’è un piccolo problema, la Samp è in serie B e il russo tra i cadetti non ne vuol sapere di tornare. Viene quindi mandato in prestito, prima a Firenze e poi a Roma, sponda giallorossa. Sulle rive dell’Arno sfiora subito l’impresa, che invece riuscirà l’anno successivo a Roma.
In maglia Viola ha come compagni di squadra dei campioni quali Antognoni, Casagrande ed il bomber Ciccio Graziani. Lo scudetto gli sfugge solo all’ultima giornata quando la Fiorentina impatta a Cagliari e la Juventus vince a Catanzaro. Come detto avrà modo di rifarsi, già nell’anno successivo.
E’ la Roma di Pruzzo, Conti, Cerezo e Falcao. E’ una Roma a trazione iperoffensiva guidata magistralmente da Nils Liedholm il quale dichiarerà: “Nelle situazioni difficili, ci possiamo permettere di attaccare in molti, tanto c’è Vierchowod che recupera”.
Ed in effetti è proprio così, con Sebino Nela e Maldera più inclini ad offendere che a difendere, e Di Bartolomei libero di spingersi in avanti, spesso Pietrone è l’unico baluardo difensivo giallorosso. Con la sua velocità, precisione e tempismo è più che sufficiente, non si passa.
Nel frattempo la Sampdoria viene promossa in A e Mantovani decide che è ora di portarlo alla casa madre. Da qui in poi seguiranno 12 anni di amore incondizionato, 12 anni in cui lo Zar e la casacca 5 blucerchiata saranno una cosa sola. Saranno, guarda caso, anche i tempi migliori per la Sampdoria che sotto il regno Vierchowod vincerà 4 Coppe Italia, 1 Coppa delle Coppe , uno scudetto.
La Coppa dei Campioni sfuggirà soltanto all’ultimo atto, beffardamente, nel 1992 a Wembley per mano del Barcellona. Il piede di Koeman, che calcerà quella punizione nei tempi supplementari, baciato dal destino. L’armata dello Zar, condotta per mano da Vujadin Boskov, costretta a versare lacrime amare.
Prima di conquistare lo storico scudetto con la Samp, Mantovani è più volte sul punto di cederlo, sommerso di richieste per quel difensore totale. Ma lo Zar non si muove, in virtù del “patto di sangue” siglato con i compagni ed amici Vialli e Mancini. Fin quando non vinciamo il tricolore da qui nessuno si muove. E così sarà.
Difensore totale lo abbiamo definito, si perché ad oggi ci risulta difficile trovargli un punto debole. Giocatori del calibro di Maradona o Van Basten, che non ha mai segnato giocando contro lo Zar, hanno più volte dichiarato che Pietro è stato il difensore più duro da affrontare.
Racconta Pietrone riferendosi ad uno dei tanti duelli con Diego:
“Una volta gli ero addosso, incollato. L’avevo, come si dice adesso, ingabbiato. Si è girato con una piroetta, un tunnel ed è volato via. Io allora sono scattato e l’ho raggiunto e chiuso in angolo e lui si è messo ridere: “Hanno ragione a dire che sei Hulk: ti manca solo il colore verde”.
Bellissime anche le parole scambiate con il cigno di Utrecht, durante un loro incontro quando ormai l’olandese si era ritirato : « ” Ma tu giochi ancora? ” Era triste, è stato imbarazzante. Lui si era ritirato a 29 anni, io ne avevo 40 ed ero ancora in pista. E’ stata una perdita immensa. Noi del calcio, tutti noi, non sappiamo cosa abbiamo perso con l’ addio di Marco. Giocatore unico, forse come i nostri duelli. Erano duri e spigolosi, ma leali. Ci siamo battuti e picchiati, non si è mai tirato indietro. Non era cattivo come Bettega, ma il gomito lo alzava anche lui»
Portata a termine l’impresa scudetto in maglia blucerchiata, il patto di sangue può considerarsi onorato. Nel 1995 si trasferisce alla Juventus, dove causa un lungo stop dovuto ad un pneumotorace, giocherà soltanto una parte di stagione. Riesce però a far sua la Champions, coronando così il sogno sfuggito a Wembley 3 anni prima.
Al termine della stagione lo vuole il Perugia del presidentissimo Gaucci e del traghettatore Galeone in panca. Il rapporto con quest’ultimo non è dei migliori, per usare un eufemismo, e Pietro dichiarerà senza mezzi termini “Galeone? Inadatto per allenare in serie A”.
Come vi abbiamo raccontato all’inizio della nostra storia sarà proprio il Milan a volerlo nella stagione ’96-’97 dopo averlo scartato nel famoso provino. E’ un Milan acciaccato, costretto a raccogliere i cocci della gestione Tabarez e metterli in mano ad un guru come Arrigo Sacchi.
La coppia centrale Baresi-Vierchowod è roba per palati finissimi, ma le primavere passano per tutti e la squadra fatica a superare la crisi nella quale è sprofondata. A farne le spese è ovviamente anche lo Zar che a fine stagione viene scaricato senza troppi complimenti. Quando tutto sembra volgere al peggio e la carriera di Pietro in parabola discendente arriva l’inaspettata quanto provvidenziale chiamata del Piacenza.
La squadra si deve salvare, deve lottare su ogni pallone e serve esperienza. Nessuno meglio del russo per costruire delle fondamenta solide. Ed infatti lo Zar sarà uno dei maggiori artefici delle due salvezze ottenute. Attaccanti come Ronaldo, Vieri ed Inzaghi devono fare i conti con un Vierchowod sì quarantenne, ma con lo spirito di sacrificio degli anni migliori.
Spesso si infrangono contro un muro, qualche volta riescono a passare ma rimane il ricordo di un segno indelebile sul corpo. L’ultimo goal, realizzato nella stagione ’98-’99, meriterebbe una storia a parte. E’ l’ultima giornata di campionato e allo stadio Garilli va in scena un Piacenza-Salernitana per cuori forti. Ci si gioca la salvezza. Lo Zar segna al minuto 53 incornando di testa, a quarant’anni suonati.
Impatterà Salvatore Fresi su rigore ma non sarà sufficiente ad impedire la retrocessione ai campani. Al termine della partita scoppiano vari focolai di rissa, in campo e nel tunnel degli spogliatoi. I campani si sentono derubati, complice un mancato rigore concesso per fallo su Tedesco, ed i nervi saltano alla velocità della luce.
I video dell’epoca ci mostrano, tra le altre cose, un Gattuso giovanissimo intento a menar le mani ed a sferrare calcioni con il malcapitato arbitro Bettin costretto a lasciare il campo, nella sua ultima partita arbitrata in carriera, scortato dalla polizia.
E’ stato difficile raccontarvi a parole l’epopea di un’icona che ha attraversato un ventennio ed oltre del nostro calcio. Son passati al vaglio dei suoi tacchetti praticamente tutti i più grandi campioni, da Ronaldo a Maradona passando per Crespo, Inzaghi e Batistuta.
Pietro è stato qualcosa di più di un semplice calciatore. è stato l’anello di congiunzione tra passato e presente. Stopper di un’epoca passata con una mente già proiettata nel calcio moderno. Questo è stato per noi lo zar, padrone di un regno che non c’è più.
Paolo Vigo
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