“Un leone non muore mai. Dorme”. È domenica 29 giugno allo Stade de France di Saint-Denis, a Parigi: si disputa la finale tra Camerun...

Un leone non muore mai. Dorme”.

È domenica 29 giugno allo Stade de France di Saint-Denis, a Parigi: si disputa la finale tra Camerun e Francia. È la Confederations Cup del 2003. I francesi hanno appena battuto la Turchia in semifinale. I camerunensi hanno vinto per 1-0 contro la Colombia. Ma la partita, la semifinale di 3 giorni prima, rimarrà per sempre impressa nei ricordi di tifosi, atleti e appassionati. Perché dopo 71 minuti di gioco, il leone Marc Vivien Foé si accasciò al suolo. E cominciò a dormire. Per sempre.

Se ti chiami Foé, nasci in Camerun, ti piace il pallone e sei alto 1 metro e 88 cm, cominci la carriera da giovanissimo. Dopo i Mondiali in America nel ’94, per Marc si sono aperte le porte della Ligue 1. 5 anni di successi con la maglia del Lens. Poi esperienze a Lione e in Premier. Capelli corti, pizzetto abbozzato, calzoncini allacciati e numero 23 in spalla (poi ritirato dal Manchester City) Foé è amato e stimato dagli allenatori di mezza Europa proprio per la sua capacità di interdizione, la voglia di lottare unita ad una buona capacità tecnica, che gli permette di giocare di fioretto e di sciabola. Davanti alla difesa e dietro le punte. Il tiro, come ogni camerunense che si rispetti, è potente. E a volte preciso.

Al West Ham arriva con una presentazione spumeggiante, in compagnia di Paolo Di Canio (con tanto di basettoni e capello corto). Con la maglia celeste del Manchester City, invece, Foé mette a segno in appena 2 stagioni 35 presenze e 9 gol. L’ultimo, una rete di rapina – quasi con lo stinco – dopo un’azione e un cross raso terra dalla fascia sinistra, proprio per scrivere la parola fine nel vecchio stadio dei Citizens, Maine Road, prima del suo abbattimento. Forte anche di testa, dopo ogni gol Foé corre libero, prima di rigirarsi e ricevere l’abbraccio dei compagni, con un sorriso grande così.

Alla Confederations Cup del 2003, in Francia, Foé si è presentato con la voglia di rivincita e la sensazione di avere un debito col destino. Era il ’98 quando il leone indomabile stava per passare al Manchester United, l’occasione della vita. Ma un grave infortunio ad una gamba annullò le trattative, oltre a fargli saltare il Mondiale. Proprio in Francia.

I transalpini, padroni del proprio girone, arrivano in semifinale contro la Turchia. Il Camerun, a sorpresa, in testa al gruppo B, si presenta allo stadio de Gerland, a Lione, contro i ragazzi della Colombia. È il 26 giugno 2003, e i camerunensi sono sull’1-0, dopo appena 9’ di gioco, grazie alla rete di Ndiefi. Al 72esimo, lontano dall’azione, non inquadrato dalle telecamere, Foé si accascia a terra. Perde i sensi. Sviene, senza forze. Inanimato. È soccorso immediatamente da compagni e avversari. Per un’ora, dopo la corsa negli spogliatoi, proseguono i tentativi per rianimarlo.“Devo darvi un’informazione tristissima, il giocatore Marc-Vivien Foé è morto”, disse allibito, in una conferenza stampa surreale, il responsabile medico della Fifa, Alfred Mueller. “I medici hanno tentato di rianimarlo per 45’, ma non c’è mai stata una reazione”.

Dopo la notizia dicono che i giocatori fossero scioccati. C’era chi piangeva, chi rimaneva semplicemente in silenzio e chi non riusciva a stare fermo. I calciatori della Colombia, ancora in maglia e calzoncino, si sono avvicinati ai camerunensi e hanno chiesto loro se potevano pregare tutti insieme: si sono inginocchiati e l’hanno fatto. L’autopsia ha rilevato poi che la causa della morte improvvisa è stata un attacco cardiaco, causato da uno sproporzionato ventricolo sinistro. Secondo molti medici la condizione era congenita (peraltro molto diffusa in Africa). Secondo alcuni specialisti la presenza di un defibrillatore allo stadio avrebbe potuto salvare la vita a Foé. Non sono mai state trovate sostanze dopanti nel suo organismo.

Durante l’altra semifinale, tra Francia e Turchia, segna proprio Titì Henry. Dopo il gol si dirige al centro del campo, alza il braccio al cielo, commosso. Così fanno i suoi compagni. È un’immagine forte, che ti rimane dentro. È un omaggio a Foé, che si è spento poche ore prima.

Domenica 29 giugno, 3 giorni dopo la morte di Foé, i leoni indomabili hanno fatto ingresso allo stadio di Saint-Denis indossando, tutti, il numero 17. Dopo 98 minuti di gioco, al primo tempo supplementare, Rigobert Song, capitano del Camerun, difensore centrale e amico fraterno di Foé, ha bucato clamorosamente un cross, permettendo al solito Henry di spingere la palla in rete di ginocchio. Il torneo si è concluso in quel momento, con Henry ad abbracciare i compagni dopo una corsa lenta, trotterellante, sotto la curva. Quasi silenziosa.

E Rigobert Song a sbattere il pungo sull’erba, incredulo per l’errore, arrabbiato con se stesso e con il mondo intero. Perché Song aveva cominciato la sua carriera proprio nella stessa squadra di Foé: con lui aveva diviso emozioni, ricordi e difficoltà. Ci piace pensare che Song, in quel pomeriggio parigino, si sia distratto per un momento, solo per un momento, pensando e ripensando al suo compagno di squadra, a quelle risate. Ai tempi andati. Ci piace pensare che Foé, anche stavolta, ci abbia messo lo zampino. Perché un leone non muore mai. Dorme.

Raffaele Nappi
twitter: @RaffaeleNappi1