Se il calcio fosse un gioco razionale, se nel calcio vincessero sempre i più forti, i più belli, i più bravi, se nel calcio tutto seguisse un filo logico, forse non ci divertiremmo così tanto. Se il calcio non ci proponesse storie incredibili, che sfidano la ragione e tutto quello che ci hanno insegnato, non sarebbe lo sport più bello del mondo.
Se nel calcio, di tanto in tanto, non nascesse uno come Manoel Francisco dos Santos, nulla avrebbe senso. Di gente come Manoel Francisco dos Santos, passato alla storia come Garrincha, in realtà, non ne nascono spesso, nè mai ne nasceranno. Perchè quella di Garrincha è una storia particolare, un romanzo in cui si intrecciano tutti gli alti e i bassi dell’esistenza umana, come se provassimo a mettere una poesia, meravigliosa, dentro un frullatore, e poi ci divertissimo, meravigliati, a guardare il risultato della nostra opera. La storia di Garrincha è unica, irripetibile e maledettamente romantica. Ed è per questo che ci piace da morire. Ma è anche triste, molto triste.
Se pensate che sia difficile nascere in una favela brasiliana oggi, nel 2015, provate a immaginare cosa doveva essere nascere nel 1933 a Pau Grande, nella regione metropolitana di Rio de Janeiro. Il piccolo Manè nasce in totale povertà e indigenza, e una brutta forma di poliomelite gli lascia anche addosso dei segni piuttosto pesanti. Un’operazione da fare, con la riabilitazione che non è esattamente quella di adesso, e con una bocca da sfamare che non sempre trova qualcosa da mettere sotto i denti. Il piccolo Manè cresce, ma non cresce la sua gamba destra, che resterà sei centimetri più corti di quella sinistra.
Con una gamba corta e storta, il giovane Manè diventa Garrincha. Il passerotto, un uccellino fragile, che con un soffio di vento può volare via e sfracellarsi al suolo. Con un fisico così, e con una colonna vertebrale in cui non è sicuro che tutte le vertebre siano al loro posto, giocare a calcio dovrebbe essere l’ultima cosa che ti viene in mente. E invece, contro ogni pronostico, al piccolo Manè il pallone piace. Gli piace correre, ma soprattutto gli piace andare via con il pallone al piede. Da quelle gambe storte non si stacca il pallone, non si stacca nemmeno a tirarglielo via. E lui corre via, con il sorriso stampato sul volto. Gioca per strada, gioca con qualche squadra del dopolavoro. Non ha mai pensato di diventare un professionista, anzi è molto probabile che non sappia nemmeno che c’è gente che viene pagata per giocare a calcio.
Nel 1953, mentre gioca con una squadra di dilettanti, quasi lo costringono a fare un provino con il Botafogo a Rio. E Manè, piazzato sulla fascia destra, mette in mostra quello che sa fare. Ed è parecchia roba. Nilton Santos, leggendario terzino della nazionale verdeoro, esce praticamente umiliato da quella partitella, che diventa un’Epifania. Ed è proprio lui a convincere la dirigenza del Botafogo a comprare quel ragazzino con le gambe storte e il dribbling più entusiasmante che si sia visto in Sudamerica. Cinquecento cruzeiros, l’equivalente di 27 dollari. Tanto costa il primo trasferimento di Garrincha.
Gli basta poco per dimostrare a tutto il mondo cosa può fare un angelo con le gambe storte. Corre, dribbla, tira sassate micidiali con cui stende i portieri avversari, mette in mezzo palloni che i compagni devono solo spingere in rete. E si diverte anche a irridere gli avversari, si diverte a superarli, tornare indietro, superarli di nuovo e ripartire. Non lo prende nessuno, diventa l’ala destra più forte del mondo in pochissimo tempo. Nel 1955 fa il suo esordio in nazionale, una squadra che ha dell’incredibile. Nel 1958 quella squadra vince i Mondiali. Ma Manè Garrincha non se ne accorge subito. Quando finisce l’ultima partita, quella contro la Svezia, decisa dalle doppiette di Vavà e Pelè e dal gol di Zagallo, Garrincha si trova stupito a guardare i suoi compagni che piangono, piangono di gioia come bambini. Non se lo spiega, Manè. Si avvicina al suo capitano Hilderaldo Bellini, gli chiede come mai stiano piangendo tutti. “Abbiamo vinto la Coppa, Manè“. “Ma come? E la partita di ritorno non la giochiamo?”
Perchè Garrincha è così, un bambino a cui basta avere il pallone tra i piedi, un bambino che spesso non capisce neanche quello che gli sta succedendo intorno. Forse perchè, proprio durante il ritiro precedente il mondiale svedese, i medici della nazionale brasiliana hanno stilato un rapporto psicologico, corredato di test d’intelligenza, per ognuno dei giocatori verdeoro. “Ha la psiche di un bambino di quattro anni, non ha l’intelligenza per fare l’autista d’omnibus.” Questo recita il rapporto di Garrincha. Il che non gli impedisce di dominare la fascia destra con il suo talento, non gli impedisce di esercitare la sua incredibile arte del dribbling.
Il Mondiale del 1962 è quello della definitiva consacrazione, quello in cui mette in mostra un calcio praticamente totale. E’ il padrone della fascia, si accentra, segna come un dannato. Pelè si fa male, lui si carica la squadra sulle spalle. E si fa anche cacciare per un calcione nel sedere ad un difensore del Cile durante la semifinale. Si deve muovere la diplomazia internazionale per fargli togliere la squalifica. Con un capolavoro degno dei trattati di pace postbellici, qualcuno convince (costringe?) il direttore di gara a ritrattare. Clamoroso, mi sono sbagliato. Non era Garrincha quello del calcio nel sedere al cileno, era un’altra persona. Scusate, eh. Il Brasile vince ovviamente il torneo, Garrincha è capocannoniere con 4 gol segnati.
Però, c’è un però. Come tutte le esistenze di chi viene dalla povertà e dalla miseria, probabilmente questa vita non fa per Manè. Beve, e parecchio. I compagni più di qualche volta devono letteralmente strappargli la bottiglia di mano. Spesso non può presentarsi in campo, versa in condizioni pietose. Il calcio diventa sempre più marginale nella sua vita. Sposa la stella brasiliana della musica Elza Soares. E siccome il destino si diverte sempre a sparecchiare quello che l’uomo mette in tavola, sarà un rapporto turbolento, triste, sconclusionato. Non ci sono conteggi ufficiali, pare che Manè abbia figliato 14 volte.
Come una stella che splende, luminosa in cielo, Garrincha si brucia troppo in fretta. L’apice dei Mondiali cileni lascia ben presto il passo al lato oscuro della sua vita. Bottiglia, bottiglia e ancora bottiglia. Un paio di brutti incidenti stradali, e la bussola che sembra irrimediabilmente persa. Garrincha continua a correre, solo che stavolta accelera verso il baratro. Molla il calcio agonistico, segue la moglie nei suoi tour europei e di tanto in tanto fa qualche apparizione in qualche partita di esibizione. Non c’è più traccia dell’angelo dalle gambe storte che incantava il mondo. La gioia e l’allegria hanno già lasciato il posto alla depressione più nera.
Il 20 gennaio del 1983 si spegne, consumato dall’alcool e dalle malattie che si erano impossessati del suo corpo. Muore da solo, come solo era sempre stato, forse. Il Brasile piange il suo figlio, il giocatore più vicino al popolo. Quello che faceva sognare, ma che faceva anche tenerezza, con quelle sue gambe storte dalle quali nessuno pensava potessero partire quei siluri, quell’andatura sbilenca e sconclusionata che mai pensavi ti avrebbe potuto fregare. E invece i difensori restavano lì, a chiedersi cosa fosse appena successo.
E Garrincha se ne andava via, lasciando tutti sul posto.
Valerio Nicastro
twitter: @valerionicastro