Il concetto di bandiera è ormai entrato da diversi anni nel gergo calcistico. Le bandiere donano anima e corpo alla propria squadra. Le bandiere...

Il concetto di bandiera è ormai entrato da diversi anni nel gergo calcistico. Le bandiere donano anima e corpo alla propria squadra. Le bandiere non tradiscono mai il proprio popolo. Le bandiere non sono soldati (letteralmente ‘al soldo di qualcuno’), o almeno non del tutto. Una bandiera è il primo tifoso, sul campo, di quei colori che si è impegnato a difendere. È un pensiero comune: questo è il massimo che una vita sportiva possa offrire. Cosa può esserci di meglio dell’essere ricordato come una leggenda, un nome che sarà legato nei secoli avvenire all’immagine di una squadra, di una città? Certo, deve essere proprio il Paradiso…per chi ha avuto scelta.

Daniele De Rossi nasce a Ostia nel 1983, a due passi da Roma. Ostia si affaccia sul Tirreno ed è piena zeppa di stabilimenti balneari. Il piccolo però non ha la passione per la spiaggia: le cose che contano, nella sua visione della vita, sono due. Una è il calcio. L’altra è la Roma. La Roma di Aldair, di Rizzitelli, di Völler. Costretta infine a salutare il vecchio eroe Bruno Conti. Alla ricerca disperata di bandiere. De Rossi gioca nell’Ostia Mare, “a metà tra una squadretta e una società professionistica“. Da terzino passa a fare l’attaccante, perché quel piccoletto ha dribbling, senso del gol e un tiro portentoso. A 9 anni la Roma lo chiama. La tua squadra del cuore ti ha notato e vuole farti giocare con i colori per cui stravedi. Tu cosa risponderesti? Daniele risponde no.

È troppo presto, vuole ancora giocare con gli amici. E poi lo sente, dentro di sé: quello strano sospetto che l’occasione tornerà. Perché è inevitabile. Quel viaggio di pochi chilometri è solo rimandato. In giallorosso ci finirà due anni dopo, con gli stessi capelli biondi, la stessa voglia di divertirsi e un tocco di esperienza in più. Mauro Bencivenga lo fa arretrare, completando la trasformazione. Al giovane Daniele non è più chiesto di segnare, anche se il tiro rimane lo stesso di sempre (una cannonata). Sa bene come si fa l’attaccante, quindi può capire meglio di chiunque gli avversari. Può strappare loro il pallone o, in alternativa, raderli al suolo. Il fisico non gli manca, la grinta è un dono di natura. È nato il centrocampista che Marcello Lippi paragonerà in seguito a Lampard e Gerrard: chissà se il c.t. della Nazionale si riferiva al talento oppure alla fedeltà.

De Rossi assiste dalla panchina alla vittoria dello scudetto del 2001: ufficialmente è ancora un “regazzino” della Primavera, convocato in prima squadra ma mai sceso in campo. Lo farà l’anno successivo in Champions League, con il tricolore sul petto e il cuore che batte a mille. Esordirà in Serie A l’anno dopo. A 21 anni diventa titolare inamovibile della propria squadra dei sogni. Quella che tifava da bambino. Quella per cui sventolava le sciarpe. Il 15 marzo del 2006 indossa la fascia di capitano, stretta attorno a quel braccio da armigero. È destinato a portarla, è ciò che la storia gli ha riservato. Non ha mai avuto dubbi in proposito, fin da quando da pischello si sbucciava le ginocchia sui campetti del Lido. Inevitabile. Perché la Storia non la inganni.

Ma la Storia ha riservato a De Rossi il più paradossale degli scherzi. Si chiama Francesco Totti, ha la 10 sulle spalle e diventerà una delle più grandi leggende dello sport italiano. Francesco non è il capitano della Roma. Francesco è la Roma. E anche se sei il tempio più splendente della romanità, non potrai mai competere con il Colosseo. Tonino Cagnucci lo chiama Capitan Futuro: presto tutti useranno quel soprannome. Croce e delizia della fedeltà. Una bandiera sì, ma non il tipo di bandiera che sventola più in alto di tutte.

Insieme a Totti, pochi mesi dopo, il ragazzino biondo diventato uomo alza la Coppa del Mondo. A 23 anni De Rossi ha già raggiunto il traguardo più ambito dai calciatori di tutto il pianeta. Ha spaccato la faccia a McBride nella partita dei gironi contro gli Stati Uniti, beccandosi quattro giornate di squalifica. Sempre la solita grinta, la stessa che aveva già mostrato in patria (e Oba Oba Martins ne sa qualcosa). Ma chi se ne frega: è tornato in tempo per la finale di Berlino, in tempo per sparare in porta quel dannato rigore. Non pensa di sicuro a cosa lo aspetta, una volta tornato nella Capitale, da trionfatore.

Lo scandalo Calciopoli ha improvvisamente tolto di mezzo la Juventus e il Milan: fra l’Inter e il dominio incontrastato c’è soltanto la Roma adesso. Ma sul terreno di battaglia il paragone tra la corazzata nerazzurra e la Lupa si mostra impietoso: due Coppe Italia e due Supercoppe Italiane è il valore del bottino strappato in quattro anni di scontri. La Sampdoria di Storari e Pazzini distrugge i sogni scudetto di una formazione acerba e poco fortunata: il 2010 mostra a De Rossi il lato più oscuro dell’essere un simbolo. Lo cercano il Milan, il Real Madrid, il Manchester United. Lui rifiuta tutto e tutti. Vuole la Roma, a testa bassa. È destinato ad essere parte di questa squadra. Innamorato e intrappolato nella cassa toracica della città per cui tifa.

Nel frattempo il suo nuovo-vecchio allenatore Zeman lo definisce “non integrato nella squadra“. Paradossale: darebbe la vita per quei pochi centimetri di terra ogni domenica. E poi gli scontri verbali con Mario Corsi, la collezione di cartellini rossi, fino all’espulsione rimediata nella gara contro il Sassuolo nella scorsa stagione. Un episodio che rischia di infrangere definitivamente il rapporto tra il romanista De Rossi e il suo popolo.

Perché essere Capitan Futuro non basta. Dare anima e corpo non basta. Se Totti è la rete capolavoro, De Rossi è un tackle In scivolata al limite della regolarità, dipinto sulla pelle del polpaccio non a caso. Se Totti è l’esultanza smodata in un derby, De Rossi è il gesto inconsulto di chi non accetta di perdere una stracittadina, per niente al mondo. Se Totti è la classe più pura, De Rossi è il sacrificio e la sofferenza. Non puoi criticare Totti, ma puoi criticare De Rossi. Questo lui lo sa. Lo sa fin da quando calciava il pallone con violenza a pochi metri dal mare. Ha accettato il proprio destino. Essere una bandiera può non essere così semplice. Non per chi vive nell’Inevitabile, nel bene e nel male, nella luce e nell’ombra.

Mattia Carapelli
twitter: @mcarapex